Pubblicato su Stilos n.4 V, suppl. al quotidiano La Sicilia, 28 gennaio 2003

Flannery OĠConnor il mistero di scrivere è mostrare la materia

 

Che cosa cĠè di comune tra Bruce Springsteen e Nick Cave, registi quali John Huston e Quentin Tarantino, scrittori quali Raymond Carver e Elizabeth Bishop o i nostri Luca Doninelli e Carola Susani? Nulla, forse. Tranne Flannery OĠConnor, letta, amata, rappresentata o imitata da tutti loro.

La scrittrice (1925-1964), che considerava sua country quel «caro vecchio lurido Sud» compreso tra la zona pedemontana della Georgia e lĠest del Tennessee, è figlia di quella terra che ha generato i Southerners, cioè penne quali Erskine Caldwell, Carson McCullers, Truman Capote, Tennesse Williams, William Faulkner. La sua opera non è immensa, ma è bastata a farla diventare una scrittrice di culto. Morta a 39 anni, ci ha lasciato due romanzi (Wise Blood, del 1952 e The Violent Bear It Away del 1960, tradotti in italiano rispettivamente da Garzanti e Einaudi) e una manciata di racconti pubblicati in due tappe nel 1955 e nel 1965. Tuttavia le sue poche pagine lĠhanno fatta apprezzare come una icona, un «mostro sacro», un modello. AllĠopera narrativa vanno aggiunte le lettere (Sola a presidiare la fortezza è il titolo di una selezione edita da Einaudi) e le prose occasionali di Mistery and Manners, tradotte in italiano col titolo di Nel territorio del diavolo dallĠeditrice Theoria dieci anni fa. Fino ad oggi tutto era reperibile nella nostra lingua tranne, appunto, questa preziosa raccolta di saggi esaurita da tempo. Se Attilio Bertolucci si disse «folgorato» dalle sue pagine, i saggi di Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere fanno capire da cosa derivi questa scossa elettrica. La folgorazione nasce da almeno tre motivi.

Il primo: la OĠConnor scrive perché vede il mondo. Seppure lĠespressione possa apparire banale, le cose stanno proprio così. La scrittrice ha una visione del reale, dunque niente labirinti coscienziali o incartamenti romantici. I materiali di cui è fatto un racconto sono i più «polverosi»: «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate dĠimpolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa». Da qui un prezioso avvertimento: non è possibile suscitare lĠemozione con testi infarciti di emozione o i pensieri facendo fuoriuscire incontenibile il pensiero da ogni angolo del racconto. A queste cose «bisogna dar corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore»: scrivere narrativa non è questione di dire cose, ma di farle vedere al lettore, di mostrarle. Se un personaggio ha un carattere legnoso deve avere una gamba di legno. Se la personalità cambia, allora deve arrivare un ladro a rubarle quella dannata gamba.

La concretezza dunque è una delle basi forti della poetica della OĠConnor. Personaggi e avvenimenti hanno un aspetto che colpisce la percezione, sono incarnati e materiali: «il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di materia», mentre spesso si crede che siano le emozioni tumultuose o le idee grandiose a fare un racconto. NientĠaffatto. Con i concetti astratti non si fanno storie: «la caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella dĠaffrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come unĠabitudine, come un modo abituale di guardare le cose». E questĠabitudine deve mettere radici profonde in tutta la personalità dellĠartista. La sensibilità e lĠacume psicologico dunque sono poveri strumenti per scrivere di narrativa. È la materia e la concretezza della vita che danno realtà al mistero del nostro essere nel mondo.

Il secondo motivo per cui si resta folgorati dalle pagine della OĠConnor è appunto il mistero. Il sottotitolo italiano della raccolta dei saggi lo dice con chiarezza: non si parla del «mestiere di scrivere», come spesso si sente in giro di questi tempi nei laboratori di scrittura più sprovveduti o «professionalizzanti», ma del «mistero di scrivere». La OĠConnor punta la mistero. La sua visione concretissima del reale non è mai da école du regard, algido e minimalista. La prospettiva della OĠConnor, invece, colloca il particolare allĠinterno della prospettiva del «mistero della nostra posizione sulla terra». Il realismo che la OĠConnor intende prendere in considerazione è quindi orientato in direzione del mistero, che si manifesta, ad esempio, nella forma dellĠimprevisto o, addirittura, del grottesco: «se lo scrittore crede che la nostra vita sia e rimarrà essenzialmente misteriosa, se ci considera come esseri allĠinterno di un ordine creato le cui leggi osserviamo liberamente, allora quello che vedrà in superficie lo interesserà solo in quanto passaggio per arrivare a unĠesperienza del mistero stesso». E allora può accadere veramente di tutto. Anche la violenza gratuita, il bizzarro e il grottesco, misto di comicità e orrore, sono funzionali a una forzatura dello sguardo. È come se la scrittrice desse uno schiaffo al lettore, scompigliando la sua intenzionalità visiva nel momento in cui sposta il volto, angolandolo di sbieco. Ciò che salta subito per aria è quel «buon senso» vagamente laico, razionale e illuministico che tanto ammorba la vera ispirazione. Solo da questo scuotimento interiore, non certo da melliflue armonie new age, può derivare quella pace profonda e quella serenità interiore che hanno spinto la scrittrice al buonumore sempre, anche quando fu colpita insieme da un tumore e da quel lupus erythematosus che la avrebbe condotta, ancor giovane, alla morte. Lontanissima da lei, inoltre, qualunque retorica ideologica o di genere da «scrittura delle donne» o «scrittura al femminile», che dir si voglia.

Il terzo motivo consiste nel fatto che lĠargomento della narrativa della OĠConnor è «lĠazione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo». È il territorio del dramma del bene e del male, della salvezza e della perdizione, della grazia e del diavolo: «Nei miei racconti &emdash; scrive paradossalmente la OĠConnor &emdash; il lettore troverà che il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace». Il senso del male è garanzia del nostro senso del mistero e dunque il diavolo diventa, in qualche modo, «una necessità drammatica dello scrittore». La OĠConnor dunque si dice scrittrice perché cattolica e afferma che per lei credere significa vedere le cose: la fede è una sorta di motorino di avviamento della percezione e, quindi, della scrittura: «la fede, nel mio caso almeno, è il motore che aziona la percezione». Ricordo che la OĠConnor era appassionata di San Tommaso dĠAquino («io sono una tomista di terzo grado»), del teologo gesuita francese Teilhard de Chardin (da lei considerato il maggiore scrittore non romanziere), del filosofo Jacques Maritain e dei mistici quali Tersa dĠAvila e Giovanni della Croce («rispetto a lui sono uno zero», scrisse). Senza la «visione» (attenzione: la visione, quella di Dante, ad esempio, non la visionarietà, che è ben altra cosa) che le è data dalla fede non le sarebbe uscita una riga dĠinchiostro. E in questa dimensione il dogma di fede assume un ruolo fondamentale: «salvaguarda il mistero a vantaggio della mente umana» e così la OĠConnor può affermare: «Scrivo sulla base di una solida fede in tutti i dogmi cristiani». E il primo è quello dellĠIncarnazione: Dio si fa carne umana, polvere. Da qui allora si amplia il campo visivo su un mondo che ella ha definito come «infestato da Cristo (Christ-haunted)». La spiegazione di questa espressione la si trova nel fatto che la OĠConnor è particolarmente sensibile agli aspetti più drammatici e paradossali dellĠincisività della Grazia, che può arrivare fino allĠabbrutimento del personaggio: «Ho lĠimpressione che gli scrittori che vedono alla luce della loro fede cristiana saranno, di questi tempi, i più fini osservatori del grottesco, del perverso e dellĠinaccettabile». Anzi, lĠirruzione della Grazia non sempre migliora la vita personale e sociale dei personaggi e, nel suo caso, è proprio esattamente il contrario. La sua narrativa allora non potrà che risultare «selvaggia», insieme violenta e comica, per via delle discrepanze che cerca di ricomporre.

«Il mistero crea un grave imbarazzo per la mentalità moderna», scrive la OĠConnor e così la sua scrittura provoca terribile imbarazzo, ma è irresistibile. Ha provocato gli effetti più disparati. Ha ispirato la violenza apparentemente gratuita di Pulp fiction e lĠintensa sobrietà acustica di un disco come Nebraska di Springsteen, tutto plasmato dalla visione delle Badlands. Ha ispirato lĠinteso e tremendo romanzo E lĠasina vide lĠangelo di Nick Cave, nonché le atmosfere da Bible Belt di molte sue canzoni, ma anche intense riflessioni teologiche sulla visione sacramentale della realtà. Le sue pagine saggistiche si leggono e si rileggono con una passione sanguigna. Mai colore rosso in copertina fu più azzeccato. La prefazione del giovane Christian Raimo, scrittore anchĠegli, è ben fatta, pertinente, opportuna. Egli, giustamente, nota come i saggi di Nel territorio del diavolo hanno la capacità di «trovare una perla in ogni questione che si apre, e di unirle in un filo ininterrotto, in una visione olistica, onnicomprensiva del reale». Ma lĠabilità del prefatore sta anche nellĠelenco delle domande che i saggi della OĠConnor affrontano. Ecco il catalogo: «perché si scrive? come si diventa scrittori? cosĠè una vocazione? come si capisce di averla? come ci si libera dal proprio egocentrismo? cosĠè lĠarte? che rapporto cĠè tra lĠarte e il denaro? cosa vuol dire la purezza? come si fa ad essere coerenti con se stessi ed efficaci con il pubblico dei lettori? come si può aver cura del talento? e cosĠè una storia? qual è il suo significato? come si dà vita ai personaggi? come li si fa parlare? come si costruisce una chiave simbolica? e ancora ancora ancora, fino a quello che è lĠinterrogativo centrale, non eludibile: se anche la Bibbia Ònon è che un vedere attraverso uno specchio in modo oscuroÓ (1 Cor 13,12), come si può con la letteratura provare a incarnare il mistero di Dio?».

A queste domande, tutte intelligenti, le risposte della OĠConnor appariranno spesso un poĠ impertinenti. Neanche lĠeditore, che continuiamo a ringraziare per averci restituito la perla che è questo libro, ha resistito alle bizze della OĠConnor e ha provato a correggerla e a «normalizzarla». Nel sito internet della casa editrice si legge, a proposito del libro, una frase esatta. Ma non fino in fondo: «LĠautrice mette apertamente in campo la sua profonda religiosità cattolica senza mai sconfinare nel fanatismo o nella bigotteria - e anzi rifiutando ogni degenerazione moralista - e ci offre esempi cristallini di teoria letteraria in cui i concetti di grazia e di mistero acquistano forza e fascino per qualunque lettore». Perfetta la prima e lĠultima parte dellĠaffermazione, ma errata la parte mediana: è proprio il rifiuto della degenerazione moralista a far sconfinare in continuazione i personaggi dei romanzi della OĠConnor nel fanatismo e nella bigotteria. E il motivo è presto detto con le parole di una lettera della stessa scrittrice inviata a una sua amica suora: «Secondo molti protestanti che conosco, monaci e le suore sono fanatici, e della peggior specie. E secondo molti monaci e suore che conosco, i miei profeti protestanti sono fanatici. A mio modo di vedere, lĠunica differenza fra costoro è che se sei cattolico e credi con tanta intensità, entri in convento e nessuno sente più parlare di te; mentre se sei protestante e credi con altrettanta intensità, non puoi entrare in nessun convento e te ne vai in giro per il mondo a ficcarti in ogni sorta di guai, attirandoti sul capo le ire di chi non crede più a niente. È anche per questo che mi riesce meglio scrivere dei credenti protestanti che di quelli cattolici: perché esprimono la loro fede in varie forme drammatiche di un'evidenza per me abbastanza facile da cogliere. Non sono scrittrice dellĠimpercettibile, io».