Corriere della Sera martedì 12 marzo 2002

(ripreso anche nella rivista I Miserabili di Giuseppe Genna)

INTERVISTA Padre Spadaro, critico di «Civiltà Cattolica», analizza la letteratura italiana del Novecento in chiave spirituale. E fa il punto su promossi e bocciati

Cattivi e buoni cristiani, il catalogo degli scrittori

Gli autori amati dai gesuiti: Saba, Caproni, Tondelli. Freddezza per Montale ed Eco

di Antonio Debenedetti

Principale «nemico» rimane il materialismo, cresce invece la comprensione verso tutte le forme di espressione (anche molto libere ma sempre nel rispetto dell'umana dignità) del dolore, dell'inquietudine, della ricerca esistenziale. Cominciamo dai poeti. I più vicini alla sensibilità di padre Antonio Spadaro, trentacinquenne critico di Civiltà Cattolica (l'autorevole rivista ufficiale dei gesuiti) oltreché professore presso la Pontificia Università Gregoriana, sono Dino Campana, Clemente Rebora e Giuseppe Ungaretti . Quindi, motivando i suoi giudizi con una ricchezza di argomentazioni poco adatta alla stringatezza di un'intervista, fa i nomi di alcuni «antinovecentisti» con un particolare orecchio alla realtà: da Umberto Saba a Giorgio Caproni fino al troppo trascurato Carlo Betocchi. Padre Spadaro, alludendo alla dialettica fra anima e sensi, si ricorda quindi di Alda Merini e di David Maria Turoldo. Gli piacciono, e tiene a sottolinearlo, Bartolo Cattafi e i versi di Cesare Pavese, «molto più belli dei romanzi». Di Sandro Penna, «pur folgorante nel sublimare le situazioni» anche più sordide, Spadaro dice «dopo una prima, magica scintilla lirica ci lascia nel buio». A Eugenio Montale riserva poche parole di omaggio fra educato e freddo. Alcuni degli autori da lei citati, padre Spadaro, sono lontani dal canone d'una letteratura d'impronta cristiana. Questa liberalità, a volerla definire cosi, trova conferma nelle pagine d'un suo nuovo, recentissimo libro A che cosa serve la letteratura? (edito da La Civiltà Cattolica). La domanda è, perciò, quasi inevitabile. Chi è scrittore cristiano?

«Personalmente ritengo che la definizione di scrittore, di poeta cristiano in realtà non significhi nulla di realmente pertinente alla scrittura. Si può parlare semmai di cristiani che sono scrittori o poeti e, meglio ancora, di una letteratura di "significato" cristiano. Questo mio modo di leggere rende difficile, se non impossibile, la costruzione di cartografie definitive e consolidate».

Può farmi l'esempio di un testo, scritto da un laico, che non disdica a una visione cristiana dell'esistenza?

«Potrei risponderle che rimango affascinato da un racconto di passioni letterarie saldamente intrecciate alla vita quale l'ha costruito Manlio Cancogni nel suo Matelda».

Quali sono gli autori che predilige?

«Prediligo la letteratura della frontiera, della soglia, dell'attesa. La letteratura che richiede anche una lettura dei silenzi, degli scarti. L'Airone di Giorgio Bassani , in questa prospettiva, è un capolavoro tutto da riscoprire. Ancora. La "visione" dell'attesa di cui è capace Dino Buzzati mi è rimasta dentro da quando, a tredici anni, lessi Il deserto dei tartari ».

Quale tendenza la interessa di più nella nuova narrativa italiana?

«Quella linea di ricerca che conduce a una discesa nel proprio secretum, che lega in momenti particolari dell'esistenza anche autori tendenzialmente realisti. Si tratta di una linea oggi molto praticata, sebbene in modi differenti, da scrittori come Elisabetta Rasy, Giorgio Montefoschi, Gilberto Severini, Gabriele Romagnoli, Filippo Betto e Arnaldo Colasanti».

Quanto da lei appena detto può valere, in parte, anche per Pier Vittorio Tondelli, cui ha dedicato una monografia adesso in uscita ( Lontano dentro se stessi Jaca Book ed.)?

«L'acutezza e l'autenticità di cui parlavo viene raggiunta in momenti di dolore o di elaborazione di un abbandono: cosi Ungaretti davanti alla morte del figlio o Tondelli davanti alla propria morte. Per quanto riguarda l'oggi farei il nome di Elena Ferrante. Ma accade anche quando la spiritualità o la coscienza etica, in un modo o nell'altro, recuperano posizioni sulla psicologia, come avviene nelle pagine di Carlo Coccioli, nei racconti di Giulio Mozzi, nella narrativa di Claudio Piersanti o in un libro straordinario qual è Se un dio Pietoso di Giovanni D'Alessandro».

E l'epica che affronta direttamente la realtà?

«Mi va benissimo, a patto che non scada in un cieco naturalismo, in una copia anastatica della vita. Si tratta, in altri termini, di approfondire il senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il senso proprio della realtà attraverso il contatto con il mistero. Mi vengono in mente, a questo proposito, testi come Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio in cui il realismo, anche quello della lotta, ha a che fare con il mistero della nostra posizione sulla terra. Un autore a noi contemporaneo, e molto diverso da Fenoglio, è Erri De Luca . Ma anche qui il realismo delle pagine è dato innanzitutto dallo stile, dalla sintassi scarna e dalla lingua concreta, materiale, pastosa ma affilata di derivazione ebraico-biblica. L'unica nota stonata è un tono sapienziale troppo insistito, estetizzante. Voglio aggiungere qui i nomi di due autori da me molto apprezzati come Giovanni Testori e Luca Doninelli ».

In un bilancio come questo non si può certo dimenticare Eco.

«La letteratura che non amo è quella ludica e combinatoria, dotta. Sento, dunque, distante la scrittura in sé arguta e ben costruita di Umberto Eco. La "vendetta" del mercato su di lui è avvenuta, forse, con il successo di Susanna Tamaro per motivi diametralmente opposti. Avverto una distanza dalla letteratura del "buon senso" razionale o del nitore illuminista, laicamente ludico o ironico o intelligentemente scettico, come quella del "secondo" Italo Calvino ».

E della neoavanguardia che cosa pensa?

«Non amo i fenomeni di sperimentazione neoavanguardistica, almeno quando risolvono la letteratura nel gioco linguistico e formale».

Le faccio solo un nome, quello di Giorgio Manganelli.

« Manganelli, pur con le sue tracotanze linguistiche e narcisistiche, si scaglia contro la letteratura che funziona a luce diurna e vive del principio del senso comune. E in questo ha ragione: la letteratura deve essere menzogna rispetto a una realtà monolitica».

 

Il libro: Antonio Spadaro «A che cosa serve la letteratura?», La Civiltà Cattolica, pagine 214, euro 13,00

 

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